Jou, a dispetto di tutto e di tutti ha continuato sempre a guardare verso i classici del Taijiquan come alla sua personale stella polare, e con l’esperienza maturata instancabilmente nell’arco di anni – come scrive nei suoi libri – era arrivato anche a spiegare – alla sua maniera, geniale e innovativa - come rientrassero nel Taiji i 5 elementi e gli 8 trigrammi, due pilastri della cultura, della medicina e della tradizione marziale cinese.
L’elemento caratteristico che ha sempre contraddistinto Master Jou è stato il brillare dei suoi occhi, che ricordavano gli ultimi grandi guerrieri. Vitalità, shen appunto come scriveva, quello era l’ultimo obbiettivo di una vita dedicata all’arte, il più alto grado di manifestazione dell’energia.
Un esempio per tutti: alla fine di una conferenza di due ore, nella quale aveva spiegato con splendidi aforismi tipicamente cinesi e con battute di un umorismo surreale ma efficacissimo, Master Jou improvvisamente chiedeva al suo pubblico perché lui, a 81 anni, era ancora bello diritto sulla sua sedia nonostante l’età, e invece noi eravamo accasciati, sdraiati, contorti sulle sedie. Come potevamo noi dire di studiare un’arte marziale se poi non eravamo capaci neppure di controllare la nostra posizione? Inutile descrivere l’imbarazzo generale. Ma il messaggio era arrivato. “Common sense” ripeteva “ è solo una questione di buon senso, tutti possono capirlo”. E rideva divertito.
Una breve nota personale. Nel 1986, dopo quasi dieci anni di pratica marziale, mi sono imbattuto casualmente nel “Tao del Tai Chi Chuan”. Da allora per me è iniziato un cambiamento profondo, radicale nella mia pratica e, logicamente, nella mia vita. Conoscere l’autore di questo libro, che nel corso di quest’ultimo decennio mi ha accompagnato costantemente nella pratica - insieme solo al “Libro dei cinque anelli” di Musashi - era rimasto un desiderio nel cassetto.
L’ho incontrato negli Stati Uniti poco prima della sua scomparsa, ed è stata un’esperienza forte, come è facile desumere da queste righe. Dimostrando il senso delle sue affermazioni davanti ad alcuni amici e colleghi, Jou mi ha usato come partner per una dimostrazione. Ho sentito il mio baricentro saltare per aria e svolazzare all’indietro di qualche metro come conseguenza di un suo spostamento, mentre lui nel frattempo già badava ad altre cose. La fludità del movimento era stata totale, morbida ma efficace, come nei Classici.
Anche Alberto Pingitore, collega di Taijiquan di Grosseto, il primo ad invitare Jou Tsung Hwa in Italia, lo ha sempre descritto come persona realmente instancabile. Dopo il viaggio da New York a Roma e altre ore di viaggio in auto, Jou sembrava comunque desideroso di insegnare subito: in palestra la sera stessa ha dato prova più volte del suo “fajing furioso” e per tre ore ha tenuto lezione, concludendo il seminario con un giochino che amava fare spesso: saltare a gambe unite per cinque minuti e alla fine verificare lo stato della respirazione. Invariabilmente il suo battito cardiaco era basso e regolare, il respiro lento, mentre gli altri ansimavano.
Inossidabile, anche a settantasei anni. Ricorda Alberto: “Ciò che mi ha colpito maggiormente è la grande vitalità che egli sapeva esprimere in ogni suo gesto e poi l’entusiasmo e la grande voglia di dividere con gli altri le sue esperienze più profonde. Inoltre Jou era un uomo molto generoso, io solo so quanto ho dovuto faticare per convincerlo ad accettare il compenso per lo stage che organizzai a Grosseto nel gennaio del 1993:’Sono venuto per il Taiji, non per i soldi’ mi disse sorridendo. In un mondo dove anche le arti marziali si muovono a suon di dollari, master Jou resterà un grande esempio di umiltà e semplicità per quanto hanno avuto la fortuna di conoscerlo e per ogni sincero praticante di Taijiquan. Mi sembra ancora di sentire la frase che ripeteva di frequente nel corso delle sue lezioni: ‘Hard work, hard work, there are no secrets!'"
Jay Dunbar, uno degli allievi più vicini a Jou, ha realizzato già da anni una struttura per aiutare i praticanti di tutte le scuole e di tutte le provenienze a comunicare e condividere l’un l’altro le proprie conoscenze sul Taijiquan. Per Jou questo era un’altra fonte di incoraggiamento, il crescente senso di comunità tra i praticanti di Taiji: “La generosità non ci impoverisce – scrive nel marzo del 1983 – e può aiutare gli altri a fare progressi. Lasciateci aprire per bene vecchie porte e fateci lavorare insieme per una vera società del Taiji”.
Nella sua ultima edizione, che a posteriore sembra quasi un testamento spirituale, l’autore si permette di raccontarci il suo “Author’s Dream”, e lo mette proprio all’inizio del libro.
“E’ stato per lungo tempo il mio sogno che un giorno gli americani di tutte le età, fede e colore pratichino Taijiquan nei parchi di questa nazione come avviene in Cina. Pochi posti al mondo hanno spazi aperti così belli che possono e devono venire usati in modo produttivo e senza alcuna spesa. Il risultato sarebbe un incredibile miglioramento nel benessere mentale e fisico.
Oggi, dopo più di trent’anni nella ricerca dei Taijiquan, comprendo che sta diventando un’arte perduta. E’ la mia speranza che per mezzo di questo libro possiamo lavorare insieme per ridonare vita al Taijiquan”.
Luigi Zanini
3 commenti:
Grazie di questa testimonianza di prima mano su Jou Tsung Hwa. Il suo "Il Tao del Tai chi chuan" continua a rappresentare un punto di riferimento e un'inesauribile fonte per l'insegnamento del Taiji.
Grazie anche per aver riportato il pensiero "Author's Dream". Il fatto che il Taiji sia diventato un'arte perduta ha sicuramente molte ragioni. In genere, ogni argomente che viene trasposto dalla Cina all'Occidente trova ostacoli di "traduzione".
Ciao Ramon, scopro con piacere che siamo compagni di università, anch'io laureato a Ca' Foscari, e che abbiamo degli amici in comune alla FISTQ e non solo. Sono d'accordo con te, e come tu sai bene tradurre è tradire, quindi i tradimenti sono spesso dovuti a limiti di cultura. Complimenti per il blog sul ZNQG, che trovo molto interessante. Un caro saluto.
Ciao Luigi e grazie per i complimenti. I problemi di traduzione sono proprio dei limiti culturali. Quando le persone scoprono questo limite, l'unica risorsa che hanno per poter imparare qualcosa è di restare aperti all'inaspettato che col tempo potrebbe svelarsi.
Mi permetto di consigliare gli articoli sul zhanzhuang che riporti sul blog. Il materiale che io ho da una trattazione troppo tecnica per chi si avvicina all'argomento.
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